domenica 7 luglio 2013

Ho le vertigini nel tornare a Nord. Tutta colpa di Hong Kong


Forse è per non sfigurare davanti al quasi omonimo King Kong, o più probabilmente perché in quest’area del mondo così immensamente popolata c’è la necessità di incastrare più persone nel minor spazio possibile, non lo so perché tutte queste persone abbiano iniziato a cercare spazio su quest’isola, ma oggi Hong Kong appare come una metropoli spettacolarmente gigantescamente “watussiana”.
Finora pensavo che certe città e costruzioni si potessero solo progettare coi mattoncini della Lego, e invece oggi, mentre l’autobus a due piani numero 6 si arrampicava sulle colline dell’isola, davanti a me è apparsa una varietà impressionante di grattacieli di altezza media di 30-35 piani, di ogni forma, colore, dimensione e materiale. Tra questi fanno terribilmente impressione i numerosi pannelli verticali di 50 piani, quasi bidimensionali, che non si capisce bene come riescano a trovare il baricentro e la forza per stare in piedi e che spuntano continuamente nel profilo dello skyline, nel tentativo disperato non solo di salvare spazio sulla terra, ma anche per aria.
Dai veri e propri fantasmi tra le nuvole nella pioggia delle 6 di Domenica mattina della periferia al firmamento di luci della sera (in seria competizione con la via lattea) nello stretto tra l’isola di Hong Kong e Kowloon, i grattacieli di Hong Kong sono veramente qualcosa di impressionante che, anche grazie all’aria condizionata a livelli esagerati dei posti pubblici, rischia di lasciare paralizzato il collo all’insù.
La ricercata verticalità diventa, però, abbastanza divertente quando si osservano passare i cortissimi tram a due piani su Queen’s Road Central.
Mentre è in corso l’allestimento per la serata della moda asiatica e per le celebrazioni della comunità filippina dell’isola, il divertimento delle 8.30 della domenica, è quello di sedersi comodamente ai bordi di un campetto di calcio e osservare divertito il tipico match scapoli-ammogliati, prima di uccidere i propri polpacci e le proprie ginocchia sulle salite e discese delle strade e dei marciapiedi multilivello della città. Quando poi i nuvoloni neri coprono improvvisamente il cielo,  alle cinque del pomeriggio, se le macchine potessero già volare, sembrerebbe di essere in mezzo al set di Blade runner.

Hong Kong merita veramente una visita, anche in giornata, come è capitato a me in questo stopover tra l’Australia e l’Italia.
Dopo più di 340 giorni e 95 posts sul blog si torna a casa, con molte lacrime e tanti punti interrogativi sul futuro, ma nella certezza che finito un viaggio ne inizia subito un altro. Quando un viaggio, infondo, cambia radicalmente la prospettiva sul mondo e su te stesso come è stato per me, tornare a casa è assolutamente ed esattamente classificabile come un altro viaggio, pieno di interrogativi e di nuove scoperte.
Nella mente, durante l’eterno volo verso casa, passano fotografie di chilometri e di angoli, di folle e di sguardi, di mesi e di istanti.
Ho imparato a fare un cappuccino, a condurre i pascoli, a marchiare i vitelli, come funziona l’industria della carne, dell’ippica, dei gamberi e ad andare sott’acqua come sub; mi sono buttato da un aereoplano, ho guidato un camper veramente hippy per 4000 chilometri, ho visto il 2013 prima di tutti i miei amici, ho finalmente vissuto da solo; ho passato 2 mesi nell’oceano, ho cavalcato al galoppo e ho guidato una moto a marce e un quad per la prima volta. Ho guidato un motorino per 200 chilometri sulle montagne, ho surfato un’onda, ho vissuto una tempesta tropicale, ho nuotato di fianco all’animale più grande dell’oceano e anche con gli squali. E nella famosa “lista delle cose da fare prima di morire” ( My Bucket list), come gran finale posso anche aggiungere un’ultima chicca: ho dormito all’Hilton Hotel. Un piccolo lusso che però dopo un anno di ostelli e di letti scomodi ( a parte la mia meravigliosa camera in Yarraman Park) si apprezza quasi come la vittoria della lotteria e che io e Alina, nonostante la febbre, mal di gola, mal di pancia e via dicendo, ci siamo voluti concedere come ultimo ricordo di un viaggio assolutamente indimenticabile.
So che è abbastanza stupido, ma arrivare con il proprio backpack alla reception dell’Hilton, fa il suo effetto e attira abbastanza l’attenzione.
Ma dall’altra parte questo è il destino di noi V.I.B. (very important backpacker).

L’ultima notte a Sydney, nell’Hilton, per noi è stata speciale, ma guardando dalla finestra del 25 piano la città andare a dormire come ogni notte e poi risvegliarsi come ogni mattina, mi ha fatto trovare la giusta morale per chiudere questo racconto:

“Ciò che è speciale è perché lo è per te. Dipingi il tuo mondo con il tuo unico, personale e irripetibile tocco e poi guarda il tuo quadro. Può essere oggettivamente il più brutto dell’universo, ma se a te piace allora è perfetto. E se piace a te, basterà la luce dei tuoi occhi per farlo apparire meraviglioso anche agli altri. E allora non c’è vergogna, giudizio o ansia. C’è solo un enorme e meraviglioso sorriso”.

giovedì 4 luglio 2013

I migliori in un inverno senza Natale


Melborune non ha lo spettacolo dell’Harbour di Sydney e delle spiagge di Bondi o Manly, questo è vero, ma tra le vetrate dei grattacieli che continuano a salire tutto sembra meno caotico e più rilassato nelle immagini che scorrono sui finestrini del tram numero 35, che prosegue lento il suo incedere sulle rotaie nel mezzo delle ampie vie del CBD.  Servizio gratuito, come anche l’autobus con tanto di guida turistica e fermate nei punti più interessanti della città: lo stadio da 100.000 posti ove si svolgono i famosi Australian Open, l’immancabile giardino del bellissimo Botanical Garden (un classico dell’urbanistica australiana), Little italy, il nuovo outlet della zona del porto fluviale e il tradizionale mercato popolare del Queen Victoria Markets.
Melbourne è l’esempio lampante della vincente politica turistica “down under”. Priva di attrazioni e peculiarità naturali, tutto viene venduto come “magnifico”, tutto viene organizzato in modo da catturare sempre più persone, dal dilagante melting-pot di cui la cittadinanza va fiera ( anche se da molte prospettiva sembra giorno dopo giorno sempre più una colonia cinese), nello spirito sempre del “noi siamo i migliori al mondo e abbiamo la terra più bella del mondo”. E’ un trucco che dopo 11 mesi passati quaggiù diventa sempre più prevedibile, come il centesimo spettacolo dello stesso prestigiatore, e che rischia di diventare abbastanza ridondante. Ma, resta il fatto, che c’è da togliersi il cappello quando una città che ospita già il gran premio di formula 1, l’Open di tennis, le finali nazionali di Football e Rugby australiano, la Melbourne Cup, si imbarca nel progetto della costruzione dell’osservatorio astronomico e planetario più grande del mondo che secondo i calcoli dovrebbe essere richiamo per un altro milioni di visitatori ogni anno.
Nella politica del “siamo i migliori” rientra anche la pubblicità sulla Great Ocean Road, i 200 km di strada “più famosi d’Australia” nonché la “costa più spettacolare del mondo”.
Partendo dal fatto che su 200 chilometri probabilmente neanche 100 sono sull’oceano, c’è però da dire che le curve d’asfalto arrampicate sulla roccia a strapiombo sulle onde spumeggianti del mare sono veramente qualcosa da provare e una piccola perla aggiunta ad un continente che non finisce mai di stupire per la varietà di paesaggi.
Ci sono poi i 12 Apostoli e le rocce della Baia dei Martiri, enormi braccia di pietra che spuntano dal mare, piccolo capolavoro dell’erosione che ha distrutto i ponti con le pareti di roccia della costa, lasciando queste enormi stalattiti come naufraghi in balia delle onde.
Nonostante la bellezza resa più godibile dal campervan a 5 stelle che abbiamo avuto la fortuna di “rilocare” da Melbourne a Sydney per soli 5 dollari al giorno (viaggiare con le compagnie di Relocation cars and campervan è molto conveniente), mi astengo dal commentare il grado di spettacolarità su scala mondiale, ma penso assolutamente che sia un “must see” per chi ha la fortuna di volare quaggiù dall’altra parte del globo.
In questi 11 mesi di blog mi sono misurato spesso con l’impossibilità della lingua di descrivere a pieno bellissimi paesaggi o esperienze. Sono certo che una certa pigrizia e una sempre più scarsa abitudine all’uso quotidiano della lingua italiana mi impediscono di trovare un aggettivo più specifico e soddisfacente di “strano” per descrivere questo inverno australe, dove si sente la mancanza del Natale, delle sue luci, delle sue bancarelle, della sua atmosfera.
E’ vero, anche qui hanno le scuole chiudono e le famiglie vanno in vacanza, molti vanno a sciare sulle piste delle Snowy Mountain (qui non si fanno tanti giri di parole per nominare le cose) o a Queenstown, in Nuova Zelanda, a Melbourne c’è un piccolo albero di fili elettrici che si illumina a ritmo con le voci dei cori che ogni sera gli cantano intorno, ma l’inverno, qui, è sicuramente più ”buio”. Questo forse è un aggettivo più interessante per le sue varie sfumature semantiche.

E Adelaide?
Adelaide, la capitale del South Australia, non è una grande città. Ti sorprendi quando il GPS dice che il centro città è a circa 7 chilometri e stai percorrendo ancora una strada a tre corsie tra le rocce delle montagne con nessuna casa attorno. Qualcuno la definisce “noiosa” e probabilmente non è il posto migliore in Australia dove poter trovare molta azione. Una cittadina tranquilla che non diresti mai arrivi a contare più di un milione di abitanti.
Come Melbourne sorge a pochi passi dal mare, sulle rive del fiume e come a Melbourne anche qui si lavora per costruire lo stadio migliore o per mantenere il titolo conquistato nel 2011 di “miglior aeroporto d’Australia”.
A 750 chilometri di distanza, non è poi cambiato infondo così tanto…