Parte II
Tutto
a poco a poco si deteriora in mare e non c’è come stare su una barca per notare
l’effetto corrosivo dell’acqua salata. La ruggine è un virus che si moltiplica
facilmente tra le crepe e gli angoli nascosti e nonostante l’uso massiccio di speciali
detergenti chimici è un nemico difficile da debellare. Ma non solo il metallo
si deteriora.
E’
abbastanza spaventoso dopo la prima settimana guardarsi le mani a fine nottata:
completamente a bolle bianche di pelle morta, piene di vesciche e impossibili
da chiudere in un pugno (in realtà per qualche giorno è già tanto se le dita si
muovono di qualche millimetro dando cenni di essere ancora attaccate al resto
del corpo). E non più benigna sorte spetta ad altre parti come pancia e gambe
che si riempiono di piccoli e irritanti puntini rossi dovuti allo sfregamento
costante con magliette e pantaloncini umidi. Lo stesso accade per gli
avambracci continuamente a contatto con
i bordi del tavolo da sorting.
In
più, per quanto mi riguarda, lasciato a piedi (nudi) dalle mie infradito da due
dollari e cinquanta che si sono rotte dopo una settimana di imbarco e
impossibilitato a indossare gli stivali di gomma perché nella mia gigantesca
valigia manca un paio di adeguati calzettoni, si sono sprecati laggiù tagli, taglietti,
vesciche, buchi, calli, che insieme al continuo dondolio delle onde, hanno
contribuito a rendere le mie camminate per il deck abbastanza goffe e, a quanto
pare, esilaranti alla vista.
Soprattutto
durante una tempesta, come quella che abbiamo vissuto, dopo neanche due
settimane, il 13 Marzo che ci ha costretti a riparare in un fiume all’intero
per l’alta probabilità del vicino transito di un vero e proprio ciclone.
I
bordi di un peschereccio non sono altissimi e le onde quella notte arrivavano
fin sopra alla testa, riempiendo il sorting tray e portando via gli sgabelli da
sotto i nostri piedi. Gli altri componenti della crew, più esperti di mare, stavano
in perfetto equilibrio, come nulla fosse, come abili surfisti continuavano nel
loro lavoro senza scomporsi, tranquillamente. Io, invece, gattonavo, mi
aggrappavo dappertutto, cercavo di girare la testa il meno possibile, perché
ogni volta che lo facevo vedevo delle montagne d’acqua alzarsi sempre di più
alle mie spalle spinte dalle continue raffiche di vento.
Deve
essere stata una scena da Zelig a giudicare dalle risate che ho suscitato. Più
o meno come quando il comandante ha trovato un asciugacapelli nella mia valigia,
il che ha creato una storia infinita sulla mia scarsa virilità, che è
continuata e continuerà a lungo da quelle parti. Mai portare un phon in barca!
I
malanni non sono finiti qui. Gli spruzzi di acqua salata, infatti, seccano a
poco a poco anche gli occhi che ai primi risvegli sono gusci difficili da aprire,
con le palpebre incollate l’una all’altra e i bulbi oculari rossi come i cieli
al tramonto.
Se a
tutto ciò si aggiunge un piede gonfio per l’infezione seguita alla puntura di
un Bull Rats per cui sono stato sotto antibiotici per cinque-sei giorni,
diciamo che il mio corpo ci ha messo un po’ ad abituarsi allo stress di una
nuova e complicata situazione. Ma piano piano tutto diventa normale: i ritmi si
assimilano, le irritazioni si ritirano (con l’aiuto di svariate tinture di
betadine) e già al ventesimo giorno tutto è magicamente normale.
E’
interessante a questo punto fare un giro nella cabina dello skipper.
Innanzitutto c’è da dire che questo è il lavoro più rilassante del mondo.
Mentre gli altri si spaccano la schiena giù da basso, lui se ne sta bello bello
in panciolle sulla sedia da comandante, guardando films a ripetizione,
ascoltando musica, o dormicchiando in branda lasciando Alfred, il pilota
automatico, occuparsi pacificamente di tutto quanto.
Certo
poi è lui che lavora e conosce la sala macchine, che si occupa dei contatti con
la terra e con la grande nave madre e che la mattina controlla, rattoppa e
ricuce i buchi nelle reti.
Un
sottile lavoro meccanico quello della riparazione delle reti, eseguito con
rapidi movimenti di mano, quasi come un’arte, un segreto che volutamente non mi
è stato insegnato, perché frutto di molto esercizio e tanta pazienza.
“Ora che lo impari sarai già in Italia e non
ne vale la pena perdere tempo”.
Ho
lottato per imparare, ma dopo un po’, come spiegherò nel prossimo intervento
sulla Social Life dell’Angelina Star, ho dovuto lasciar perdere.
Ma
torniamo all’interno della cabina del comandante per osservare un paio di
interessanti piccoli schermi.
Quello
al centro, arancione su fondo nero è il radar, uno strumento di difficile
interpretazione. Nel campo circolare del raggio di azione, solcato centralmente
da una linea indicante la direzione verso cui si sta navigando si muovono
piccole macchie arancioni di diversa composizione e conformazione. Navi, nuvole
o terra ferma? In realtà molte volte ci sono dubbi sulla interpretazione,
perché per esempio un temporale può apparire esattamente come un’isola o uno
stormo di uccelli come una nave. Non è facile per un occhio inesperto riuscire
ad interpretare un radar e come mi ha spiegato il Capitano è facile perdere il
senso dell’orientamento perché “si sa sempre da dove si è venuti, ma a volte
non dove si è”. Per questo una volta quando non esistevano i computer si
battevano sempre le stese zone e si evitava la circumnavigazione di alcune
isole per problemi appunto di orientamento (in realtà una bussola avrebbe
risolto tutto quanto, ma queste sono le storie del Capitano e il capitano ha
sempre ragione, anche quando se ne esce fuori con frasi del tipo “tutti i
bianchi del mondo sono di razza anglo-sassone!”. E’ successo davvero e tra ci è
mancato poco di essere defenestrato per aver sostenuto il contrario…)
Oggi,
con l’arrivo della tecnologia (non proprio all’ultimo grido a dire la verità)
il tutto è reso più semplice con l’aiuto di una mappa virtuale solcata da un
impazzire di linee di diversi colori, che indicano la rotta attuale e tutte le
rotte già percorse in passato. Tutto ciò offre una grande comodità: se la notte
prima è stata particolarmente buona, il comandante può impostare il pilota
automatico sulla stessa identica rotta e nel corso di tutta la notte, poi, non
deve far altro che dare qualche rapida occhiata al radar e controllare che
nessuna delle quattro navi nel giro di miglia e miglia decida di intrecciare la
stessa rotta (most unlikely). Se, invece, la notte precedente non è stata
soddisfacente si salva l’area da evitare e si prosegue per diversi e più
gratificanti spots.
Una
barca da gamberi pesca alla velocità di circa 2 nodi e qualcosa, toccando i 3 e
mezzo come punta massima e gli 1.5-1.6 controcorrente. Nel suo lento incedere
un sensore termico sonda le profondità marine e il fondale, rilevando le forme
di vita presenti nell’acqua.
Anche
questo strumento però è abbastanza ambiguo. Nonostante si possa amplificarne e
diminuirne la sensibilità, una sensibilità eccessiva porta ad una confusione di
puntini azzurri sullo schermo, mentre una troppo bassa non permette di
visualizzare la (probabile) presenza di piccoli animaletti come i gamberetti.
Probabile perché essendo che i gamberetti della East Coast si muovono raramente
in schools spesso sono troppo piccoli per essere captati e un puntino azzurro
sullo schermo può essere davvero un alga o un qualunque altro tipo di pesce
Così davanti a puntini azzurri e arancio, che passano su uno schermo la cui
alta definizione ricorda Pacman o i primi SuperMario, sta molto allo skipper l’interpretazione di ciò
che gli strumenti segnalano. E così la pesca del gambero resta un mestiere
affascinante per la sua assoluta caratteristica probabilistica: niente è certo
finché le reti non vengono tirate su.
Nessuno
conosce perfettamente cosa accade infondo al mare, il perché una zona molto
pescosa improvvisamente, anche da una notte all’altra si trasformi in un
silenzioso mortorio. Ognuno va per la sua strada e segue il proprio istinto e
la propria esperienza. Così siamo stati colti impreparati nella notte degli 800
kg di gamberetti e così, tornando nella stessa area dopo 10 giorni, abbiamo
pescato poco più di 300 kg, un terzo dei quali Soft, di piccola dimensione e
scarso valore.
Una
domanda sorge spontanea a questo punto: siete stati 52 giorni in mare, dove li
avete messi tutti quei gamberetti?
Non
potendo attraccare in porto, bisognando comunque conservare una certa
freschezza del prodotto per la vendita e dovendo fare nuove scorte di cibo,
acqua e benzina, tutti i pescherecci si affidano a grandi navi-madre container,
la Barge.
Ogni
due settimane, così, avviene il lavoro più faticoso in assoluto: l’unload di
tutte le scatole di gamberetti. Uno di noi a turno si infila nella botola della
cella frigorifera principale e ad una ad una passa in alto le scatole ad una
povera schiena piegata (che spesso ero io) che continua la catena nelle mani
dei muscolosi e instancabili marinai della nave madre che con la sola forza
delle spalle lanciano su uno scivolo metallico ogni box che, ricevuta dall’altra
parte, viene convogliata al secondo livello della Barge con un nastro trasportatore
(unica componente meccanica di questo duro lavoro) e posizionato in uno dei diversi
container.
Per
noi si trattava di una media di 50-60 boxes per notte, quindi all’incirca
800-900 per unload. Per loro si trattava di una quindicina di barche, chi più
chi meno piena, in soli 2-3 giorni. Non un lavoro per tutti, ma assolutamente
ben retribuito.
E,
fortunati loro, al giorno d’oggi di trawlers in giro non ce ne sono più tanti
come una volta.
Tutta
colpa dei prezzi triplicati della benzina e del gas e delle tasse governative
sempre più esose che hanno dimezzato gli stipendi dei marinai e moltiplicato le
percentuali sottratte alle vendite. Il capitano mi ha detto che vent’anni fa
c’erano più di 250 trawlers tra la East Coast e Torres Strait. Oggi se ne
contano all’incirca una sessantina.
Quello
che è successo la 51 e ultima sera è stato un piccolo dramma finanziario, il
problema che ha portato alla decisione di tornare in porto. Una fuoriuscita di
gas per delle piccole falle alle valvole dell’alimentazione dei freezer.
Abbiamo perso complessivamente 30 kg di gas che convertiti in attuali dollari
sono 4500. Qualche anno fa sarebbe la perdita sarebbe stata “solo” di un terzo
di quella cifra.
Tornando
alla Barge, una parte molto concitata e interessante è quella dell’attracco di
due barche in mare aperto. A secondo del lato in cui viene effettuato l’unload,
vengono preparate sul peschereccio due corde una a poppa e una a proravia che
vengono lanciate come lazi dei cowboy sulla grande nave, dove vengono raccolti
dai marinai che le bloccano su due grandi bitte.
Nel
contempo un’altra fune è lanciata dalla barge alla piccola imbarcazione, che
piano piano dopo alcune manovre e urla, dondolando un po’ avanti e un po’
indietro riesce infine ad accostarsi nel posto giusto.
Il
tutto in grande velocità: i pescatori passano dalla tranquillità alla frenesia
con la stessa facilità con cui un interruttore della luce passa da off a on.
I
nostri unload duravano circa un’oretta, ma c’erano navi con carichi di un mese
che arrivavano a 2-3 ore consecutive senza sosta. Come dal fornaio, così, si
crea la coda, e come api con il miele i pescherecci da miglia di distanza si
riuniscono nel raggio di qualche centinaio di metri, fermando i loro motori, aspettando
impazienti il loro turno e scambiando conversazioni via radio con la
concorrenza. Non c’è orario. Si può essere alle nove di mattina come alle 9 di
sera, un po’ come alla Poste italiane.
Ma l’arrivo della Barge è anche un evento di curiosità e di
relax: si incontrano altri esseri umani, arriva il giornale dalla città e con
il cibo fresco, nuove scatole per gamberi, benzina e acqua fresca, arriva anche
qualche rilassante chiacchierata condita da gossip e maldicenze marinaresche.
Ed è così che notizie, come quella del phon, viaggiano.
Un tocca sana di lucidità mentale soprattutto in una situazione
di equilibrio psicologico delicato come si era venuta a creare….
(to be continued )
La nave-madre con i pescherecci
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