mercoledì 24 aprile 2013

Manuale di pesca del gambero Parte II


Parte II

Tutto a poco a poco si deteriora in mare e non c’è come stare su una barca per notare l’effetto corrosivo dell’acqua salata. La ruggine è un virus che si moltiplica facilmente tra le crepe e gli angoli nascosti e nonostante l’uso massiccio di speciali detergenti chimici è un nemico difficile da debellare. Ma non solo il metallo si deteriora.
E’ abbastanza spaventoso dopo la prima settimana guardarsi le mani a fine nottata: completamente a bolle bianche di pelle morta, piene di vesciche e impossibili da chiudere in un pugno (in realtà per qualche giorno è già tanto se le dita si muovono di qualche millimetro dando cenni di essere ancora attaccate al resto del corpo). E non più benigna sorte spetta ad altre parti come pancia e gambe che si riempiono di piccoli e irritanti puntini rossi dovuti allo sfregamento costante con magliette e pantaloncini umidi. Lo stesso accade per gli avambracci continuamente a contatto con  i bordi del tavolo da sorting.
In più, per quanto mi riguarda, lasciato a piedi (nudi) dalle mie infradito da due dollari e cinquanta che si sono rotte dopo una settimana di imbarco e impossibilitato a indossare gli stivali di gomma perché nella mia gigantesca valigia manca un paio di adeguati calzettoni, si sono sprecati laggiù tagli, taglietti, vesciche, buchi, calli, che insieme al continuo dondolio delle onde, hanno contribuito a rendere le mie camminate per il deck abbastanza goffe e, a quanto pare, esilaranti alla vista.
Soprattutto durante una tempesta, come quella che abbiamo vissuto, dopo neanche due settimane, il 13 Marzo che ci ha costretti a riparare in un fiume all’intero per l’alta probabilità del vicino transito di un vero e proprio ciclone.
I bordi di un peschereccio non sono altissimi e le onde quella notte arrivavano fin sopra alla testa, riempiendo il sorting tray e portando via gli sgabelli da sotto i nostri piedi. Gli altri componenti della crew, più esperti di mare, stavano in perfetto equilibrio, come nulla fosse, come abili surfisti continuavano nel loro lavoro senza scomporsi, tranquillamente. Io, invece, gattonavo, mi aggrappavo dappertutto, cercavo di girare la testa il meno possibile, perché ogni volta che lo facevo vedevo delle montagne d’acqua alzarsi sempre di più alle mie spalle spinte dalle continue raffiche di vento.
Deve essere stata una scena da Zelig a giudicare dalle risate che ho suscitato. Più o meno come quando il comandante ha trovato un asciugacapelli nella mia valigia, il che ha creato una storia infinita sulla mia scarsa virilità, che è continuata e continuerà a lungo da quelle parti. Mai portare un phon in barca!
I malanni non sono finiti qui. Gli spruzzi di acqua salata, infatti, seccano a poco a poco anche gli occhi che ai primi risvegli sono gusci difficili da aprire, con le palpebre incollate l’una all’altra e i bulbi oculari rossi come i cieli al tramonto.
Se a tutto ciò si aggiunge un piede gonfio per l’infezione seguita alla puntura di un Bull Rats per cui sono stato sotto antibiotici per cinque-sei giorni, diciamo che il mio corpo ci ha messo un po’ ad abituarsi allo stress di una nuova e complicata situazione. Ma piano piano tutto diventa normale: i ritmi si assimilano, le irritazioni si ritirano (con l’aiuto di svariate tinture di betadine) e già al ventesimo giorno tutto è magicamente normale.

E’ interessante a questo punto fare un giro nella cabina dello skipper. Innanzitutto c’è da dire che questo è il lavoro più rilassante del mondo. Mentre gli altri si spaccano la schiena giù da basso, lui se ne sta bello bello in panciolle sulla sedia da comandante, guardando films a ripetizione, ascoltando musica, o dormicchiando in branda lasciando Alfred, il pilota automatico, occuparsi pacificamente di tutto quanto.
Certo poi è lui che lavora e conosce la sala macchine, che si occupa dei contatti con la terra e con la grande nave madre e che la mattina controlla, rattoppa e ricuce i buchi nelle reti.
Un sottile lavoro meccanico quello della riparazione delle reti, eseguito con rapidi movimenti di mano, quasi come un’arte, un segreto che volutamente non mi è stato insegnato, perché frutto di molto esercizio e tanta pazienza.
“Ora che lo impari sarai già in Italia e non ne vale la pena perdere tempo”.
Ho lottato per imparare, ma dopo un po’, come spiegherò nel prossimo intervento sulla Social Life dell’Angelina Star, ho dovuto lasciar perdere.
Ma torniamo all’interno della cabina del comandante per osservare un paio di interessanti piccoli schermi.
Quello al centro, arancione su fondo nero è il radar, uno strumento di difficile interpretazione. Nel campo circolare del raggio di azione, solcato centralmente da una linea indicante la direzione verso cui si sta navigando si muovono piccole macchie arancioni di diversa composizione e conformazione. Navi, nuvole o terra ferma? In realtà molte volte ci sono dubbi sulla interpretazione, perché per esempio un temporale può apparire esattamente come un’isola o uno stormo di uccelli come una nave. Non è facile per un occhio inesperto riuscire ad interpretare un radar e come mi ha spiegato il Capitano è facile perdere il senso dell’orientamento perché “si sa sempre da dove si è venuti, ma a volte non dove si è”. Per questo una volta quando non esistevano i computer si battevano sempre le stese zone e si evitava la circumnavigazione di alcune isole per problemi appunto di orientamento (in realtà una bussola avrebbe risolto tutto quanto, ma queste sono le storie del Capitano e il capitano ha sempre ragione, anche quando se ne esce fuori con frasi del tipo “tutti i bianchi del mondo sono di razza anglo-sassone!”. E’ successo davvero e tra ci è mancato poco di essere defenestrato per aver sostenuto il contrario…)
Oggi, con l’arrivo della tecnologia (non proprio all’ultimo grido a dire la verità) il tutto è reso più semplice con l’aiuto di una mappa virtuale solcata da un impazzire di linee di diversi colori, che indicano la rotta attuale e tutte le rotte già percorse in passato. Tutto ciò offre una grande comodità: se la notte prima è stata particolarmente buona, il comandante può impostare il pilota automatico sulla stessa identica rotta e nel corso di tutta la notte, poi, non deve far altro che dare qualche rapida occhiata al radar e controllare che nessuna delle quattro navi nel giro di miglia e miglia decida di intrecciare la stessa rotta (most unlikely). Se, invece, la notte precedente non è stata soddisfacente si salva l’area da evitare e si prosegue per diversi e più gratificanti spots.
Una barca da gamberi pesca alla velocità di circa 2 nodi e qualcosa, toccando i 3 e mezzo come punta massima e gli 1.5-1.6 controcorrente. Nel suo lento incedere un sensore termico sonda le profondità marine e il fondale, rilevando le forme di vita presenti nell’acqua.
Anche questo strumento però è abbastanza ambiguo. Nonostante si possa amplificarne e diminuirne la sensibilità, una sensibilità eccessiva porta ad una confusione di puntini azzurri sullo schermo, mentre una troppo bassa non permette di visualizzare la (probabile) presenza di piccoli animaletti come i gamberetti. Probabile perché essendo che i gamberetti della East Coast si muovono raramente in schools spesso sono troppo piccoli per essere captati e un puntino azzurro sullo schermo può essere davvero un alga o un qualunque altro tipo di pesce Così davanti a puntini azzurri e arancio, che passano su uno schermo la cui alta definizione ricorda Pacman o i primi SuperMario,  sta molto allo skipper l’interpretazione di ciò che gli strumenti segnalano. E così la pesca del gambero resta un mestiere affascinante per la sua assoluta caratteristica probabilistica: niente è certo finché le reti non vengono tirate su.
Nessuno conosce perfettamente cosa accade infondo al mare, il perché una zona molto pescosa improvvisamente, anche da una notte all’altra si trasformi in un silenzioso mortorio. Ognuno va per la sua strada e segue il proprio istinto e la propria esperienza. Così siamo stati colti impreparati nella notte degli 800 kg di gamberetti e così, tornando nella stessa area dopo 10 giorni, abbiamo pescato poco più di 300 kg, un terzo dei quali Soft, di piccola dimensione e scarso valore.

Una domanda sorge spontanea a questo punto: siete stati 52 giorni in mare, dove li avete messi tutti quei gamberetti?
Non potendo attraccare in porto, bisognando comunque conservare una certa freschezza del prodotto per la vendita e dovendo fare nuove scorte di cibo, acqua e benzina, tutti i pescherecci si affidano a grandi navi-madre container, la Barge.
Ogni due settimane, così, avviene il lavoro più faticoso in assoluto: l’unload di tutte le scatole di gamberetti. Uno di noi a turno si infila nella botola della cella frigorifera principale e ad una ad una passa in alto le scatole ad una povera schiena piegata (che spesso ero io) che continua la catena nelle mani dei muscolosi e instancabili marinai della nave madre che con la sola forza delle spalle lanciano su uno scivolo metallico ogni box che, ricevuta dall’altra parte, viene convogliata al secondo livello della Barge con un nastro trasportatore (unica componente meccanica di questo duro lavoro) e posizionato in uno dei diversi container.
Per noi si trattava di una media di 50-60 boxes per notte, quindi all’incirca 800-900 per unload. Per loro si trattava di una quindicina di barche, chi più chi meno piena, in soli 2-3 giorni. Non un lavoro per tutti, ma assolutamente ben retribuito.
E, fortunati loro, al giorno d’oggi di trawlers in giro non ce ne sono più tanti come una volta.
Tutta colpa dei prezzi triplicati della benzina e del gas e delle tasse governative sempre più esose che hanno dimezzato gli stipendi dei marinai e moltiplicato le percentuali sottratte alle vendite. Il capitano mi ha detto che vent’anni fa c’erano più di 250 trawlers tra la East Coast e Torres Strait. Oggi se ne contano all’incirca una sessantina.
Quello che è successo la 51 e ultima sera è stato un piccolo dramma finanziario, il problema che ha portato alla decisione di tornare in porto. Una fuoriuscita di gas per delle piccole falle alle valvole dell’alimentazione dei freezer. Abbiamo perso complessivamente 30 kg di gas che convertiti in attuali dollari sono 4500. Qualche anno fa sarebbe la perdita sarebbe stata “solo” di un terzo di quella cifra.

Tornando alla Barge, una parte molto concitata e interessante è quella dell’attracco di due barche in mare aperto. A secondo del lato in cui viene effettuato l’unload, vengono preparate sul peschereccio due corde una a poppa e una a proravia che vengono lanciate come lazi dei cowboy sulla grande nave, dove vengono raccolti dai marinai che le bloccano su due grandi bitte.
Nel contempo un’altra fune è lanciata dalla barge alla piccola imbarcazione, che piano piano dopo alcune manovre e urla, dondolando un po’ avanti e un po’ indietro riesce infine ad accostarsi nel posto giusto.
Il tutto in grande velocità: i pescatori passano dalla tranquillità alla frenesia con la stessa facilità con cui un interruttore della luce passa da off a on.
I nostri unload duravano circa un’oretta, ma c’erano navi con carichi di un mese che arrivavano a 2-3 ore consecutive senza sosta. Come dal fornaio, così, si crea la coda, e come api con il miele i pescherecci da miglia di distanza si riuniscono nel raggio di qualche centinaio di metri, fermando i loro motori, aspettando impazienti il loro turno e scambiando conversazioni via radio con la concorrenza. Non c’è orario. Si può essere alle nove di mattina come alle 9 di sera, un po’ come alla Poste italiane.
Ma l’arrivo della Barge è anche un evento di curiosità e di relax: si incontrano altri esseri umani, arriva il giornale dalla città e con il cibo fresco, nuove scatole per gamberi, benzina e acqua fresca, arriva anche qualche rilassante chiacchierata condita da gossip e maldicenze marinaresche. Ed è così che notizie, come quella del phon, viaggiano.
Un tocca sana di lucidità mentale soprattutto in una situazione di equilibrio psicologico delicato come si era venuta a creare….
(to be continued )


La nave-madre con i pescherecci

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