Questo
piccolo intervento manca appositamente di un approfondimento su un argomento
complesso e si basa su conversazioni, telegiornali radiofonici e impressioni di
viaggio.
Una esperienza comune che si fa attraversando tutto il nord (e anche il
centro) dell’Australia, da Cairns a Broome, da Est a Ovest, passando per Darwin
è quella del contatto con un disastro umano come la situazione degli aborigeni.
L’antico popolo che abitava indisturbato queste terre fino a non meno
di due secoli fa, dalle caratteristiche fisonomiche miste tra i popoli
dell’Africa per colore e alcuni lineamenti, tra Pigmei per la statura e altri
tratti del viso, e tra gli scheletri dei
film horror per la magrezza e le gambe sottilissime, oggi è vittima di un
contagio depressivo tremendo. La comunità aborigena (per quanto si tratti di
numerose comunità con diverse lingue e dialetti si tende oggi, sia per
l’estinzione o la scomparsa di molte di esse, sia per easy sake a parlare di
un'unica comunità) è nel mondo quella che presenta, negli ultimi anni, la più
alta percentuale di suicidi, superando i popoli scandinavi e i giapponesi.
Un popolo privato della propria terra e della propria identità,
parassita in uno Stato totalmente assistenzialista che destina loro ogni anno
milioni e milioni di dollari, come se i soldi fossero l’acqua santa per la
pulizia della coscienza.
L’eccessivo assistenzialismo è, come conosciamo bene noi Italiani dalla
Questione Meridionale dopo la conquista del Sud ad opera del Nord nel 1861, un’arma
a doppio taglio.
Se da una parte permette di tenere a bada una intera popolazione e la
propria coscienza, fornendo loro soldi per la scuola, per la sanità, per la
crescita dei figli, una casa e via dicendo, dall’altra impigrisce il corpo e la
mente, togliendo quella sana sete di rivalsa sociale e quella reale necessità
di sostentamento che sono il motore di una riscossa popolare.
Eternamente ubriachi, seduti sotto gli alberi tutti i giorni per tutto
il giorno, immobili come aeroporti di atterraggio per le mosche, magri e
puzzolenti, passano la loro vita senza uno scopo, tenuti a debita distanza dai
bianchi in cui ogni giorno cresce il
risentimento verso chi, pur prendendo i soldi dalle loro tasse, non fa nulla
per cambiare la propria condizione.
Sembrano come quei vecchi che hanno deciso che va bene così, che la
loro vita è stata abbastanza lunga e si lasciano piano piano morire in un
letto, per quanto attorno abbiano figli e nipoti che allungano mani per farli
rialzare. Almeno così li dipinge il telegiornale radiofonico della comunità
aborigena nel WA.
A Cairns li puoi vedere lì, vagare o barcollare per le strade, oppure
stare seduti in gruppo, con due stracci addosso e i piedi nudi, a fissare in
silenzio i passanti, senza mai chiedere soldi, più spesso una sigaretta, con le
mani appoggiate a terra all’indietro a sostegno della schiena e le gambe
distese a carezzare l’erba dei giardini.
A Broome, nel centro città o nelle zone turistiche, se sembrano
essercene di meno passeggiando in ChinaTown o Cable Beach durante il giorno, all’imbrunire
e di notte, adesso che la stagione turistica non è ancora iniziata, sono gli
unici a vagare per le strade.
Cinque bambini muovono le loro fragili ginocchia rincorrendo una
bicicletta, figli di nessuno o forse di quelle madri che vedi camminare
stancamente per le strade appoggiate sulla schiena a sostenere il seno pesante
e la pancia.
Qualche volta tra un gruppo di giovani spunta una qualche barba bianca,
e allora puoi vedere come l’età dell’uomo non cambiano la sostanziale noia di
vivere e di essere che ha avvolto con una coperta di rassegnazione e pigrizia
le loro anime. La speranza di vita per un aborigeno è attorno ai 50-55 anni
tutt’oggi, vent’anni di meno di un australiano bianco.
Ci sono tante figure che si adoperano a livello sociale, o aborigeni
che cercano un riscatto e si danno da fare, almeno per cercare di uscire da una
apparenza di sfattezza totale.
A Broome, per esempio, vengono date agli aborigeni delle case dove
possono abitare a patto che non le danneggino. Ubriachi fradici (nonostante i
prezzi degli alcolici in Australia siano mediamente tripli op quadrupli
rispetto all’Europa), tornano in quelle case e le sfasciano. Per ripararle ci
sono delle agenzie che chiedono tantissimi soldi per i loro servizi (il WA e il
NT sono le regioni più costose e con le più alte paghe d’Australia), e così una
piccola signora che gestisce una bancarella del mercato si è presa l’incarico,
assumendo un qualche backpackers per 30 dollari l’ora (immaginatevi quanto
prendano le agenzie suddette), e va in giro per la città a riparare quelle
case, in modo che questi uomini e le loro famiglie abbiano ancora una casa. Che
poi dipende cosa si intende per famiglia.
Qui nel Kimberley alcuni aborigeni vengono usati come rangers nei vari
parchi nazionali. A Bungle Bungle, da dove scrivo, ce n’è uno che dopo anni di
galera ha ottenuto il lavoro. Ha 16 figli avuti da più di dieci mogli diverse
di cui, come un Enrico VIII, si disfa a propria piacimento, qualcuna perché
malata, qualcuna perché ne preferisce un’altra, e qualcun’altra per un diverso
motivo ancora.
Questi bambini a piedi nudi rincorrevano le rane che uscivano dai
gabinetti con due Ipad di ultima generazione tra le mani, in un claster tonale
abbastanza stridente. Le opportunità di lavoro e di una vita benestante, quindi,
ci sono davvero anche per loro. E’ che, come mi era stato detto a Rossgole
quando per la prima volta ho affrontato l’argomento con un Australiano, molti
non si vogliono conformare al modo di vivere dei bianchi, ma, al contempo, ne
pretendono oramai alcuni privilegi come gli aiuti economici dal governo e i
tanti servizi non a pagamento che a loro sono offerti.
Oggi si sta lavorando per cercare di rivalutare a livello nazionale la
cultura aborigena, ma gli unici tentativi di valorizzazione fatti finora
sembrano nascere più da un fattore di business che da un fattore
“antropologico-sociale”, nel cercare di crearne una industria turistica che pur
potendo essere utilizzata come fonte di entroiti per le comunità locali,
sicuramente non è il metodo migliore per l’autostima e l’orgoglio della propria
identità.
“Bisognerebbe, invece di dargli soldi, coinvolgerli in progetti, dargli
un lavoro in modo che si possano riscattare, e questo è stato fatto” mi ha
raccontato oggi un altro ranger bianco. “Dopo il problema che c’è stato negli
anni ’50 e ’60, quelli che chiamano della stolen
generation, in cui i bambini aborigeni venivano “strappati” dalle loro
famiglie per farli andare a scuola e farli integrare nella società dei bianchi,
il governo ha dovuto/voluto chiedere scusa e rimborsare a suon di milioni la
comunità aborigena. Comunità aborigena che è ricchissima e ogni anno diventa
sempre più ricca con tutti i soldi che sborsa il governo. Ma il problema è che
a loro davvero non interessa integrarsi”.
“Qui nel Kimberley qualche anno fa c’era da iniziare un lavoro per la
risistemazione del letto di un fiume” continua il ranger “un lavoro che sarebbe
stato per una decina di anni almeno e anche ben pagato. Quando sono andato per
propormi mi è stato fatto capire che praticamente avevo il colore della pelle
sbagliato. Nel tentativo di dare delle motivazioni e un ruolo alle comunità
aborigene locali, questo impiego era dato solo a loro. Si presentarono, presero
le tute e tutti gli equipaggiamenti forniti dal governo e poi più della metà
non si presentò più”.
“Che poi quello che più mi fa arrabbiare è che loro possono venire
liberamente nelle nostre città, ma noi non possiamo entrare nelle loro
comunità, dove loro hanno i loro negozi e le loro cose, totalmente allo
sfascio. L’altro giorno ho avuto una discussione con l’altro ranger aborigeno
che si lamentava per il fatto che non poteva cacciare nel Parco Nazionale, la sua
terra. Io gli ho detto, se vuoi cacciare sulla tua terra fallo, ma usa l’arco e
le frecce e la caccia tradizionale aborigena e non il fucile e le armi che ti
sono state date dai bianchi!”
Concetto strano quello di “propria terra”, soprattutto per un popolo
come quello aborigeno nella cui cultura manca un vero e proprio concetto di
proprietà privata. Nell’antichità non ci si faceva tutti questi problemi.
Cartaginesi, Romani, Barbari, Franchi, Sassoni, chiunque vinceva le battaglie
aveva la terra e regnava su di essa. Se poi oggi giorno il mondo è diventato
più politicaly correct, non può voler dire che chi perde la guerra possa avere più privilegi di chi la vince.
E comunque osservando la situazione anche di altri esempi più
contemporanei come gli Indiani d’America o i Curdi per gli aborigeni non è
andata poi così male, ma è pur vero che in un mondo che accelera sempre più verso
il futuro, in una nazione ambiziosa e sempre più casa di un nuovo melting pot, recuperare il proprio passato diventa ogni giorno sempre più
difficile. Ma bisogna vedere quanto questo interessi.
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