mercoledì 12 giugno 2013

Ma cosa ci fai a Bali?



Tra le sorprese che mi ha riservato questo viaggio c’è stata quella della decisione improvvisa di scappare dall’inverno di Perth per 3 settimane di completo relax a Bali. Il viaggio nella vicina Asia è quasi un must per gran parte dei ragazzi che visitano l’Australia, dove i soldi guadagnati in una settimana sono sufficienti per vivere un mesetto comodo comodo in Thailandia o Indonesia, con tanto di pranzi e cene al ristorante e camera privata.
Ora il problema, dopo una settimana di incredibili comforts che la vita da backpackers risparmioso fa presto dimenticare, è che il relax è tale che prendere in mano il computer per scrivere qualcosa di questa esperienza è veramente faticoso (probabilmente anche perché 4 lezioni di Yoga, tra verticali e sollevamenti acrobatici, si sono fatte abbastanza sentie…).
Davanti al tavolino di questo bar in Gili Trawangan, la più grande del piccolo arcipelago delle Gili islands, tra Bali e Lombok, regioni del mondo su cui molto spesso la geografia nostrana tace,  il cappello di nuvole dell’altissimo vulcano la cui cima Olimpica è spesso invisibile ha già coperto il giorno prima del tramonto e le strane barche indonesiane ancorate a pochi metri dalla spiaggia sembrano nella loro forma particolare ragni in bilico sulla loro ragnatela nel vento.
Bellissime immersioni tra decine di enormi tartarughe marine si nascondo infondo a questo pacifico vortice di correnti che impedisce di raggiungere a nuoto la più piccola Gili Meno, a poco più di due bracciate da qui, ma che come una dolce carezza sfiora la pinne a 18 metri di profondità tra pesci-scorpione, gigantesche aragoste, e le diversissime sfumature di colore e forme del migliaio di pesci che danzano tra i coralli.
Nella sottile linea che separa dalla pigrizia, piccoli e grandi piacere ed emozioni si confondono tra un materasso per lo Yoga, quello del lettino del centro massaggi e i cuscini del ristorante mentre una manciata di riso, uova e verdura grigliata fatica a trovare la via dello stomaco, per l’assenza dell’aiuto della forza di gravità, spaparanzati, come sul divano di casa, sui cuscini e le sdraio del ristorante.
E d’altra parte come non essere in pace dopo la cerimonia sacra nel tempio Indu, così familiarmente a base di aspersioni d’acqua sacra e incensi, il cui ricordo e la benedizione sono impresse nel piccolo gettone metallico appeso alla collanina che porto ora al collo?
Purtroppo bastano dieci minuti di passeggiata in una delle vie principali di Ubud a rovinare in gran parte il relax guadagnato con “tanta fatica”.
“Taxi?!, yes please!” “Food please, come!” “Taxi? Not today, tomorrow maybe?!” “Come in please!” “Scooter?!” “Yes Maybe”… la povera gente che lavora e/o gestisce le numerosissime botique e ristoranti è una continua monotonia di cicale in cerca di cibo, persistente e noiosa, come la voce del rabbino della moschea di Gilli island che per diverse volte al giorno innalza al cielo la sua preghiera stonata, fatta di lunghissime “aaaaaaaaa” e “oooooo” che è probabilmente la causa di tutte quelle nuvole che il cielo usa come tappi per le orecchie, lasciando alla terra la gioia di vibrare degli “Om” del silenzioso respiro degli Yoghis e del coro delle incessanti voci del coro di 100 uomini che accompagnano coi loro incessanti versi le secolari rappresentazioni teatrali del mito di Rama.
Lo so che certi commenti possono essere percepiti come una sfumatura di poco rispetto per diverse culture e religioni, ma le riporto così come il mio cervello occidentale, istruito da tre anni di studio di supposta “bella musica”, interpreta l’impulso elettrico dai padiglioni auricolari, e se le sue interpretazioni risultato a volte un poco ottuse, chiedo scusa a suo nome.
Un certo rigurgito di coscienza, però, sale più facilmente, almeno per me, quando si tratta di contrattare il prezzo di qualsiasi cosa si voglia comprare dalle botiques in Ubud.
Vere e proprie aste quelle ingaggiate tra compratore e commerciante, con spesso prezzi di partenza che partono da meno della metà del valore dell’oggetto da una parte e da il doppio dall’altra. E’ “il normale” gioco tira e molla tra chi ha bisogno di vendere in mezzo ad un mare di concorrenza e chi ha una amplissima scelta con un grande bonus di tempo, denaro e di possibilità per comprare ciò che più gli apre e piace. Basta una semplice mossa, un piccolo passo verso l’uscita, per ottenere sconti incredibili.
Certo una cosa che non ti aspetti è in questa pace e relax beccarti raffreddore, mal di gola, mal di stomaco, mal di pancia e via dicendo, probabilmente, però, a lungo incubate dal freddo e gelo patito durante le notti passate a dormire nel furgone e dalle scatolette di tonno da 90 cents di Coles che per quindici giorni di fila sono state il “delizioso” piatto unico lungo le strade della West Coast. O forse è solo il modo in cui il corpo lascia andare nella calma le diverse tensioni accumulate in un anno. Sicuramente, però, è il miglior modo per attenuare l’invidia di chi è a casa, lontano chilometri, nel sudore della crisi e dell’estate che spero nel frattempo abbia raggiunto, come normale in questo periodo, l’Europa.
Guardando Alina, mia compagna di viaggio per gran parte di questi 300 e passa giorni, penso a tutti quelli che a guardano ogni anno il catalogo delle diverse agenzie di viaggio e che sognano ad occhi aperti di essere sdraiati su una bellissima spiaggia di un’isola tropicale, con accanto un Mojito, la maschera e pinne e una bellissima ragazza.
Beh, certi sogni sono più realizzabili di quanto si pensi…

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