Non avrei mai pensato che alla fine della
quinta settimana di farm io potessi dire che probabilmente un’ora non basta per
raccontare tutto quello che è successo questa settimana. Infondo il paesaggio è
sempre quello, ogni mattina si incontrano le solite 4-5 persone che abitano
queste centinaia e centinaia di chilometri quadrati.
Eppure da dove cominciare? Riassumiamo:
L’ultima volta ho parlato della marchiatura
dei vitellini. Lavoro durissimo. Prima di tutto perché essendo l’addetto a
mantenere la zampa posteriore del piccolo toro che viene castrato sono
assolutamente sotto tiro di “cagata a spruzzo” (cosa che puntualmente avviene),
secondo perché è vero che mi avevano detto che i vitellini possono saltare, ma
non pensavo potessero arrivare a scavalcare un cancello di quasi due metri.
Per questo bisognerebbe dire “salti come un
vitello”, non come una rana, o almeno non come quelle piccole ranocchie verdi
che infestano il bagno e la tazza del water ogni sera e che si appiccicano alla
ceramica, così avvinghiate che neanche lo sciacquone gli fa il solletico.
Due persone ci vogliono per far entrare quei
tre o quattro vitelli ribelli di ogni turno, uno che tira la coda, l’altro che
si aggrappa alle orecchie. Dopo una
sessantina di vitellini si è a pezzi.
Differente, invece, e ancora più pericoloso, è
il branding dei piccoli puledrini.
Non essendo abituati all’uomo, questi sono molto timorosi e difficili da domare,
e sono pronti a scalciare e a correre attorno al piccolo yard dove sono rinchiusi non appena ci si avvicina per più di due
metri. Non è un lavoro da tutti, per questo viene chiamato il veterinario con
l’attrezzatura specifica, compresa la fiala di Ketamina per riuscirli a mettere
knock out (sempre che si riesca a
tenerli buoni il tempo di una puntura…).
La marchiatura viene eseguita a freddo (cold
branding), perché i cavalli non riescono a reggere la stessa quantità di dolore
dei vitelli. Così il ferro viene fatto raffreddare in una bacinella di
polistirolo contenente azoto liquido e l’ustione viene causata dal metallo
ghiacciato.
Questa proporzione di seguito può dare l’idea
della difficoltà e delle differenza di tempo che ci si impiega per marchiare i
diversi animali, ( tenendo conto anche del tempo per riuscirli a ingabbiare o
nel caso dei cavalli a farli fermare, fattissimi, con la tenta a ciondoloni
verso il basso):
Per 200 agnelli- 30 vitelli - forse 1 cavallo.
Mercoledì però c’è stato il vero lavoro duro.
Più che in senso muscolare, in senso sentimentale: squartare una pecora per
ricavarne la carne da mangiare.
La descrizione che segue è abbastanza
accurata, quindi a qualcuno può dare fastidio.
Preciso che in cuor mio non me la sono sentita
di uccidere la povera pecora e l’ho fatto fare a Kevin, che poi mi ha guidato
nelle fasi successive dove sono invece passato all’azione.
Scelta una pecora nel recinto, basandosi sulla
coda (“più la coda è paffuta, più la pecora è paffuta”, mai fidarsi di ciò che
si vede, infatti, una pecora magra può avere addosso tanta lana), la si solleva
e la si porta vicino alla camera dove la sua carcassa verrà appesa: una piccola
casetta di fianco all’inceneritore, con due piccole discese in cemento dove
l’animale viene adagiato. Con il solito coltellaccio, senza troppi complimenti,
segando avanti e indietro si taglia il collo dell’animale tenuto fermo tra le
proprie gambe. Mentre il corpo nei successivi due tre minuti continua a
dimenarsi nonostante gli occhi spalancati e attoniti dell’animale riflettano
già vuoti l’azzurro del cielo (mettiamoci un po’ di poesia, c’è n ‘è un sacco
anche qui che non sembra poterci essere), si passa subito alla prima fase che
possiamo chiamare “rasatura violenta”. Bisogna infatti togliere tutta la lana e
la pelle per arrivare ai muscoli. Partendo dalle gambe con il coltello si fanno
dei tagli longitudinali verso il centro del corpo dell’animale, staccando la
pelle dalle gambe ossute, stando attenti a lasciare intatti i tendini che vanno
dal ginocchio ai piedi (la piccola fessura che si crea tra il perone e il
tendine viene usata per appendere successivamente la carcassa). Ogni gamba poi
viene segata e spezzata all’altezza del ginocchio e la lana e la pelle
letteralmente “strappate” via dal muscolo. Finite le quattro gambe si procede
con la pancia e rivoltando l’animale con la schiena.
Una volta spellato definitivamente, con una
sega si apre lo sterno.
Il corpo spellato di una pecora è un ritratto
anatomico bellissimo e affascinante.. Tutto è ben visibile, tutto è così
stranamente simile al corpo umano nei colori e nelle forme: I polmoni rosa, il
cuore grande come un pugno, il fegato, il rosso scuro dei muscoli. Forse solo
l’intestino, che fa capolino come un enorme BIG BUBBLE al di là della cupola
del diaframma attaccata a tutto l’arco costale e alla spina dorsale, è un po’
più scuro e più corto. Ma non c’è molto tempo per soffermarsi a osservare la
perfezione che la natura ha messo anche in un animale stupido come la pecora,
perché i cani sono subito lì, pronti ad azzannare qualsiasi pezzo cada dalla
carcassa, che nel frattempo è stata appesa a testa in giù (la testa mezza
mozzata è ancora lì che penzola, ebbene sì).
Aprendo una piccola parentesi sulla stupidità,
gli animali ne hanno diversi gradi.
Dalle pecore che pensano di poter sfondare
travi di legno a testate, alle mucche che hanno la faccia più idiota della
terra mentre ti guardano ragliando il loro “muuuu!” (“muggiscono” non rende l’idea
del casino che fanno). Penso che si possano dire i cavalli gli animali più
intelligenti quaggiù, se non altro perché sono gli unici che quando defecano
alzano la coda e non si scacazzato addosso.
Ma torniamo alla nostra carcassa appesa con lo
sterno aperto come la porta di un armadio sulla bellezza delle interiora che
vanno fatte fuoriuscire dalla carne. Per staccare l’intestino crasso,
purtroppo, l’unico modo è quello di infilare un dito su per l’ano della carcassa,
dove puntualmente si trova una manciata di quelle simpatiche palline di cacca
di pecora (a dire la verità è davvero una cacca simpatica: incredibilmente
perfetta nella rotondità, non resta attaccata alle mani e non sporca)
Il diaframma viene tagliato via con il
coltello mentre finalmente la testa viene staccata del tutto recidendo la
trachea (Mannaggia ai cani, non ho fatto in tempo a vedere le corde vocali!).
Il fegato (buonissimo!) è l’unico organo
insieme al cuore (dato in pasto ai cani) che viene conservato. Il resto viene
buttato insieme alla testa nell’inceneritore.
Ed ecco che la nostra carcassa di pecora è
pronta per essere appesa nella nostra cella frigorifera e cucinata per il
giorno dopo. Beautiful!
La tosatura delle pecore vive segue metodi un
po’ differenti, per fortuna, ma anche lì gli animali ne escono malconci e con
parecchi graffi.
Oggi, Venerdì, sono arrivati due tosatori
professionisti, che in una giornata hanno tosato la bellezza di 116 rams (pecoroni maschio usati per
soddisfare le più di 5000 pecore femmina della tenuta. Bella vita!).
La tosatura è un lavoro durissimo. Chinati per
dieci ore di fila, con l’animale da tosare tra le gambe (che non è che sia
leggerissimo, diciamo).
Una cordicella attiva e disattiva un piccolo
motorino posizionato a circa tre metri dal suolo, che dà l’impulso elettrico per far funzionare
un rasoio elettrico molto simile a quello che gli uomini usano per farsi la barba.
Riconoscere la qualità, dividere la lana
ottenuta e impacchettarla non è assolutamente un lavoro facile e richiede una
grande esperienza. Una volta rasata tutta la pecora, dopo che si è messa da una
parte la lana della pancia e gli scarti della lana della testa e del sedere, si
stende l’enorme “pelliccia” su un tavolo enorme fatto di piccole aste di legno
o di metallo distanti tra loro in modo da creare fessure di 1-2 cm in cui
vengono fatte cadere tutte le ciocche sporche o non buone. Controllata tutta
questa lana, la si divide in compartimenti diversi a seconda della qualità, che
dipende, da quello che ho capito, da quanto siano e meno uniti i filamenti
interni che la compongono.
Io che facevo in tutto questo? Pulivo per
terra raccogliendo gli scarti (Lox) in una busta apposita. Un lavoro immane
considerando i ciocchi e chiocchettini che si spargono ovunque!
By the way il meteo qui non è stato molto
clemente in questi giorni (o forse sì, dipende dai punti di vista). Questa
mattina, aperta la porta della mia stanza, tutto non era poi così diverso dal
Novembre nebbioso e freddo di Milano. L’unica differenza è che in poco più di
tre ore si è passati da 5 gradi delle sette di mattina ai 30 delle 10:30.
Certi lavori, come il branding, non si possono
fare sotto la pioggia, così aspettando il temporale di ieri sera e quello che
dovevaarrivarestaseramacheallafinenonèarrivatopiù, sono stato reclutato come
giardiniere nella parte di proprietà a valle della gigantesca collina di
Rossgole, dove vivono in pensione il papà e la mamma di Frank. Questa parte è
chiamata Cambria o, come io l’ho soprannominata, “l’inferno delle mosche”,
l’animale più fastidioso e terribile di tutto il pianeta. Trenta sempre
addosso, dappertutto, non c’è angolo protetto o che ti possa salvare. Sotto il
sole cocente, sollevando con entrambe le mani occupate pesanti pezzi di balle
di fieno, con trenta mosche che se apri un attimino la bocca ti finiscono di
traverso: il lavoro in campagna può essere il triplo più stressante di quello
in città. Veramente, rischi di uscirne pazzo, pazzo esaurito da una mattinata
così.
E così tutto d’un fiato ho detto tutto. 19.05.
La cena dovrebbe essere pronta. Domani giorno di pausa. Nonostante vada a letto
ogni sera alle nove, questo lavoro non è proprio a piece of cake…
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