venerdì 15 febbraio 2013

My funny Valentine


Era una di quelle giornate in cui le nuvole transitano sbadate sulla volta del cielo, ricoprendo l’azzurro con l’incessante strascico del loro velo, come nobili settecenteschi, passeggiando senza meta giusto per mostrare ai piccoli uomini la loro opulenza.
La mia vacanza-disoccupazione mi aveva portato su uno di quei world-wide tavoli di legno da pic-nic, su un piccolo prato, appena separato dalla piccola spiaggia di Port Douglas da una sottilissima linea di cespugli e altissime palme. Con il mio telefono sempre più taciturno al mio fianco, stavo occupando il tempo nel modo più utile possibile, con la solita lettura meditativa di Osho sul significato della vita: il capitolo di quel giorno era “Is any point in living?” (cioè: ha un senso vivere?”).
Mi ricordo che quando andavo al liceo se qualcuno si perdeva in discorsi filosofici o in qualche solita masturbazione celebrale c’era il detto “poche ragazze da quelle parti, eh?!”.
San Valentino è una festa che lascia l’opinione pubblica abbastanza combattuta: tra i fidanzati che si lamentano perché devono spendere soldi per comprare regali, tra i single che piagnucolano l’inutilità della festa come la volpe con l’uva, fino ai più cinici, o realisti, che trovano in essa la più grande manifestazione del consumismo moderno, insieme ai colori coca-cola di Babbo Natale.
Per me San Valentino è solo un appunto su una agenda che mi porta alla mente la famosissima storia della metà della mela di Platone e ricorda la fortuna che si ha, o che si ha avuto, ad avere al proprio fianco qualcuno che ti vuole bene.
Ma al mio fianco non c’era nessuno. Apparentemente.
Di solito è il corpo che capta per primo una certa sensazione di fastidio nella schiena che pian piano fa alzare lo sguardo. Solo più tardi la mente riconosce che c’è qualcuno davanti a te che ti sta fissando.
Una donna, sarà stata sulla quarantina, capelli corti, biondi, un vestito verde a disegni geometrici, teneva in mano le sue scarpe da ginnastica azzurrissime senza infilarle.

“What’s your name?” i suoi occhi avevano qualcosa di vuoto come una luce malinconica.
Le risposi e le chiesi il suo nome, poi le solite domande e i soliti convenevoli.
“Sono della Germania, di Amburgo. Sono qui in Australia in vacanza…” parlava lentamente, con un inglese scarsamente accentato e mi fissava, con una strana dolcezza che è difficile descrivere a parole, perché era come una ciambella che nascondeva un muro nero di pacata follia.
Pensai di riprendere a leggere e fare finta di niente, ma lei continuava a fissarmi.
“Mi piacerebbe vivere in Francia”.
“A Parigi?”
“Si Parigi…”
Chiusi a poco a poco il mio libro e iniziai frase dopo frase a essere più disponibile alla conversazione.  Lei era ancora lì ferma, immobile, come dieci minuti prima, con quegli stessi occhi che probabilmente non parlavano a me, ma a qualcun altro. Era un soggetto interessante, le conversazioni coi pazzi, ho letto da qualche parte, di solito contengono dentro di esse, grande saggezza.
“Ma sei qui da sola?”
Mi stava per rispondere, ma improvvisamente tacque. I suoi occhi mi fissavano. Improvvisamente spaventati e spaesati, come prismi di cristallo deformavano l’immagine di una psiche probabilmente logorata da qualche trauma o da una lunga pazzia.
Non era difficile dentro di me sentire una leggera tensione mischiarsi lentamente con la normale paura degli sconosciuti e con la naturale protezione di una certa diffidenza.
Dopo aver abbassato il suo sguardo, come per resettare il sitema copo un crash, con la sua voce sottile mi risponde:
“Mi piacerebbe vivere in Cecoslovacchia”.
La guardai con un sorriso.  
“Ci sei mai stata?!” Forse questo non fu molto elegante da parte mia, era come se il mio cervello automaticamente si stesse ponendo su un piano superiore e di compassione. Mi promisi di scendere un po’ dal piedistallo e di continuare cercando di non fare domande troppo personali o “velenose”. Anche perché dopo altri dieci secondi di silenzio la risposta fu:
“quale tipo di scarpa è migliore?”
“migliore per cosa?”
“quale tipo di scarpa è migliore, Reebok?”

Poi d’improvviso si alzò, fece due passi e poi si fermò sfiorando con la sua mano il tavolo.
“Che bella borsa”
Ringraziai educatamente, ma nella mia calma iniziavo a sentire qualche piccola crepa e il mio livello di guardia stava iniziando a salire.
Ma lei mosse velocemente la mano e in un attimo mi ritrovai di fronte un piccolo cioccolatino a forma di cuore, incartato in una splendente carta rosa.
“I love you!” e non appena queste parole uscirono dalla sua bocca, subito si ritrasse come una ragazza timida, ma il suo sguardo continuava a fissarmi. Sorrisi e perplesso e imbarazzato la ringraziai.
“Qui c’è un’aria così aborigena”. E fece per andarsene, con le sue scarpe ancora tra le mani e i piedi nudi che si rifiutavano di schiodarsi da quel punto, da quell’attimo, da quel passato.
Stette lì ancora un paio di minuti, ma poi salutando se ne andò, tornando nel silenzio assordante del suo Io.

E così ho avuto il mio regalo e il mio Ti amo a San Valentino. I più cinici, e realisti, diranno che è stato solo il delirio di una pazza o di una donna il cui profondo trauma l’ha portata a proiettare qualcun altro su di me. Ma la bellezza di un momento del genere, proprio mentre stavo leggendo un libro sul significato dell’esistenza, proprio in un periodo del mio viaggio così difficile e incerto, a me è sembrata abbagliante.
E’ sembrata la Vita o qualcosa di più grande stessa venire da me e rispondere direttamente alla mia domanda:
“Che senso hai?”
“Ti amo”.
E mai risposta è stata più bella e più grande. Ma forse io sono un po’ troppo romantico…

Ma non è finita qui, perché se siamo nell’umore e nell’apertura giusta per ascoltare il mondo e ciò che ci accade anche una passeggiata ansiosa alla ricerca di un lavoro può diventare una illuminazione stupefacente.
Così dice la pagina di Osho che avevo appena finito di leggere.

“Vivere consiste solo di quelle cose che sono fatte senza un fine(pointless è difficile da tradurre fedelmente). Vivere è significante di per sé. I soldi hanno un fine. La carriera politica ha un fine. Il business ha un fine perché puoi vedere i risultati. Il business diventa importante, la politica diventa importante, la religione diventa importante e la poesia, la musica, danzare, amare, l’amicizia, la bellezza, la verità spariscono dalla vita. Arte per il gusto dell’arte. La tua poesia farà di te un mendicante, perché chi comprerà la tua poesia? Ma i poeti, proprio perché danno loro stessi alla loro arte, vivono e conoscono una gioia che nessun politico potrà mai avere
I enjoyed! Questa era la mia pittura, questa la mia canzone, questa la mia poesia, Solo in questi momenti in cui io parlo e sento la comunione avvenire mi danno una gioia tremenda a cui niente può essere aggiunto.”

Una bellissima pagina di filosofia, bellissime righe di inchiostro che si perdono nell’etere di pensieri e pensieri che se lasciati lì a fermentare, come gocce di pioggia, corrodono con la ruggine le vecchie abitudini di vita, trasformandole. Ma finché sono pensieri sono condannati a rimanere astratte teorie.
C’era un uomo sulla cinquantina di fronte all’ingresso del supermercato. Imbracciava una chitarra a dodici corde nera, con i palmi delle sue mani tatuati di bianco uno di fianco all’altro sulla cassa. Cantava divinamente e suonava leggero, passando la sua giornata raccogliendo qualche spicciolo dalla gente che passava lì di fianco.
Gli chiesi di cantare insieme a lui la sua canzone preferita:
“non è la mia preferita, ma ha un bellissimo messaggio”. Ed ecco che dalle prime pennate sulle corde si riconosce subito Let  it be dei Beatles, perfetto consiglio da dare a chiunque sia nella mia attuale situazione (che tra l’altro lui non conosceva). Così, dopo un paio di cori e doppie voci improvvisate, dopo aver canticchiato sottovoce con lui un po’ di canzoni, sfruttando una piccola pausa tra una canzone e l’altra gli chiesi:
“Ma tu cosa fai per vivere?”
“Ho un piccolo lavoro, ma principalmente produco il mio personale cioccolato dai semi per le piante fino a prodotto finito”.

La ricchezza del viaggiatore sta nell’incontrare e nell’esperire. Nulla al mondo ha più valore.
Tante cose sono scritte, ma solo quelle che dalle pagine passano all’esperienza si illuminano e iniziano a vivere dentro di noi.
Infondo ho guadagnato più da una giornata da disoccupato che in un mese di lavoro…

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