Era una di quelle giornate in cui le nuvole transitano sbadate sulla
volta del cielo, ricoprendo l’azzurro con l’incessante strascico del loro velo,
come nobili settecenteschi, passeggiando senza meta giusto per mostrare ai
piccoli uomini la loro opulenza.
La mia vacanza-disoccupazione mi aveva portato su uno di quei world-wide
tavoli di legno da pic-nic, su un piccolo prato, appena separato dalla piccola
spiaggia di Port Douglas da una sottilissima linea di cespugli e altissime
palme. Con il mio telefono sempre più taciturno al mio fianco, stavo occupando
il tempo nel modo più utile possibile, con la solita lettura meditativa di Osho
sul significato della vita: il capitolo di quel giorno era “Is any point in
living?” (cioè: ha un senso vivere?”).
Mi ricordo che quando andavo al liceo se qualcuno si perdeva in
discorsi filosofici o in qualche solita masturbazione celebrale c’era il detto
“poche ragazze da quelle parti, eh?!”.
San Valentino è una festa che lascia l’opinione pubblica abbastanza
combattuta: tra i fidanzati che si lamentano perché devono spendere soldi per
comprare regali, tra i single che piagnucolano l’inutilità della festa come la
volpe con l’uva, fino ai più cinici, o realisti, che trovano in essa la più
grande manifestazione del consumismo moderno, insieme ai colori coca-cola di
Babbo Natale.
Per me San Valentino è solo un appunto su una agenda che mi porta alla
mente la famosissima storia della metà della mela di Platone e ricorda la
fortuna che si ha, o che si ha avuto, ad avere al proprio fianco qualcuno che
ti vuole bene.
Ma al mio fianco non c’era nessuno. Apparentemente.
Di solito è il corpo che capta per primo una certa sensazione di
fastidio nella schiena che pian piano fa alzare lo sguardo. Solo più tardi la
mente riconosce che c’è qualcuno davanti a te che ti sta fissando.
Una donna, sarà stata sulla quarantina, capelli corti, biondi, un
vestito verde a disegni geometrici, teneva in mano le sue scarpe da ginnastica
azzurrissime senza infilarle.
“What’s your name?” i suoi occhi avevano
qualcosa di vuoto come una luce malinconica.
Le risposi e le chiesi il suo nome, poi le
solite domande e i soliti convenevoli.
“Sono della Germania, di Amburgo. Sono qui in
Australia in vacanza…” parlava lentamente, con un inglese scarsamente accentato
e mi fissava, con una strana dolcezza che è difficile descrivere a parole,
perché era come una ciambella che nascondeva un muro nero di pacata follia.
Pensai di riprendere a leggere e fare finta di
niente, ma lei continuava a fissarmi.
“Mi piacerebbe vivere in Francia”.
“A Parigi?”
“Si Parigi…”
Chiusi a poco a poco il mio libro e iniziai
frase dopo frase a essere più disponibile alla conversazione. Lei era ancora lì ferma, immobile, come dieci
minuti prima, con quegli stessi occhi che probabilmente non parlavano a me, ma
a qualcun altro. Era un soggetto interessante, le conversazioni coi pazzi, ho
letto da qualche parte, di solito contengono dentro di esse, grande saggezza.
“Ma sei qui da sola?”
Mi stava per rispondere, ma improvvisamente
tacque. I suoi occhi mi fissavano. Improvvisamente spaventati e spaesati, come
prismi di cristallo deformavano l’immagine di una psiche probabilmente logorata
da qualche trauma o da una lunga pazzia.
Non era difficile dentro di me sentire una
leggera tensione mischiarsi lentamente con la normale paura degli sconosciuti e
con la naturale protezione di una certa diffidenza.
Dopo aver abbassato il suo sguardo, come per
resettare il sitema copo un crash, con
la sua voce sottile mi risponde:
“Mi piacerebbe vivere in Cecoslovacchia”.
La guardai con un sorriso.
“Ci sei mai stata?!” Forse questo non fu molto
elegante da parte mia, era come se il mio cervello automaticamente si stesse
ponendo su un piano superiore e di compassione. Mi promisi di scendere un po’
dal piedistallo e di continuare cercando di non fare domande troppo personali o
“velenose”. Anche perché dopo altri dieci secondi di silenzio la risposta fu:
“quale tipo di scarpa è migliore?”
“migliore per cosa?”
“quale tipo di scarpa è migliore, Reebok?”
Poi d’improvviso si alzò, fece due passi e poi
si fermò sfiorando con la sua mano il tavolo.
“Che bella borsa”
Ringraziai educatamente, ma nella mia calma
iniziavo a sentire qualche piccola crepa e il mio livello di guardia stava
iniziando a salire.
Ma lei mosse velocemente la mano e in un
attimo mi ritrovai di fronte un piccolo cioccolatino a forma di cuore, incartato
in una splendente carta rosa.
“I love you!” e non appena queste parole
uscirono dalla sua bocca, subito si ritrasse come una ragazza timida, ma il suo
sguardo continuava a fissarmi. Sorrisi e perplesso e imbarazzato la ringraziai.
“Qui c’è un’aria così aborigena”. E fece per
andarsene, con le sue scarpe ancora tra le mani e i piedi nudi che si
rifiutavano di schiodarsi da quel punto, da quell’attimo, da quel passato.
Stette lì ancora un paio di minuti, ma poi
salutando se ne andò, tornando nel silenzio assordante del suo Io.
E così ho avuto il mio regalo e il mio Ti amo
a San Valentino. I più cinici, e realisti, diranno che è stato solo il delirio
di una pazza o di una donna il cui profondo trauma l’ha portata a proiettare
qualcun altro su di me. Ma la bellezza di un momento del genere, proprio mentre
stavo leggendo un libro sul significato dell’esistenza, proprio in un periodo
del mio viaggio così difficile e incerto, a me è sembrata abbagliante.
E’ sembrata la Vita o qualcosa di più grande
stessa venire da me e rispondere direttamente alla mia domanda:
“Che senso hai?”
“Ti amo”.
E mai risposta è stata più bella e più grande.
Ma forse io sono un po’ troppo romantico…
Ma non è finita qui, perché se siamo
nell’umore e nell’apertura giusta per ascoltare il mondo e ciò che ci accade
anche una passeggiata ansiosa alla ricerca di un lavoro può diventare una
illuminazione stupefacente.
Così dice la pagina di Osho che avevo appena
finito di leggere.
“Vivere
consiste solo di quelle cose che sono fatte senza un fine(pointless è difficile
da tradurre fedelmente). Vivere è significante di per sé. I soldi hanno un
fine. La carriera politica ha un fine. Il business ha un fine perché puoi
vedere i risultati. Il business diventa importante, la politica diventa
importante, la religione diventa importante e la poesia, la musica, danzare,
amare, l’amicizia, la bellezza, la verità spariscono dalla vita. Arte per il
gusto dell’arte. La tua poesia farà di te un mendicante, perché chi comprerà la
tua poesia? Ma i poeti, proprio perché danno loro stessi alla loro arte, vivono
e conoscono una gioia che nessun politico potrà mai avere
I
enjoyed! Questa era la mia pittura, questa la mia canzone, questa la mia
poesia, Solo in questi momenti in cui io parlo e sento la comunione avvenire mi
danno una gioia tremenda a cui niente può essere aggiunto.”
Una bellissima pagina di filosofia, bellissime
righe di inchiostro che si perdono nell’etere di pensieri e pensieri che se
lasciati lì a fermentare, come gocce di pioggia, corrodono con la ruggine le
vecchie abitudini di vita, trasformandole. Ma finché sono pensieri sono
condannati a rimanere astratte teorie.
C’era un uomo sulla cinquantina di fronte
all’ingresso del supermercato. Imbracciava una chitarra a dodici corde nera,
con i palmi delle sue mani tatuati di bianco uno di fianco all’altro sulla
cassa. Cantava divinamente e suonava leggero, passando la sua giornata
raccogliendo qualche spicciolo dalla gente che passava lì di fianco.
Gli chiesi di cantare insieme a lui la sua
canzone preferita:
“non è la mia preferita, ma ha un bellissimo
messaggio”. Ed ecco che dalle prime pennate sulle corde si riconosce subito Let
it be dei Beatles, perfetto consiglio da
dare a chiunque sia nella mia attuale situazione (che tra l’altro lui non
conosceva). Così, dopo un paio di cori e doppie voci improvvisate, dopo aver
canticchiato sottovoce con lui un po’ di canzoni, sfruttando una piccola pausa
tra una canzone e l’altra gli chiesi:
“Ma tu cosa fai per vivere?”
“Ho un piccolo lavoro, ma principalmente
produco il mio personale cioccolato dai semi per le piante fino a prodotto
finito”.
La ricchezza del viaggiatore sta
nell’incontrare e nell’esperire. Nulla al mondo ha più valore.
Tante cose sono scritte, ma solo quelle che
dalle pagine passano all’esperienza si illuminano e iniziano a vivere dentro di
noi.
Infondo ho guadagnato più da una giornata da
disoccupato che in un mese di lavoro…
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