Stanno succedendo davvero tantissime cose qui
dall’altra parte del mondo. Troppe per un solo intervento sul blog. Le
racconterò tutte piano piano nel corso del tempo, anche perché sembra proprio
che il 12 Febbraio inizierò a lavorare in un’altra farm, vicino Cairns, dove
finalmente mi arruolerò per il tanto discusso fruit picking e così avrò il tempo di fermarmi un attimo nella
monotonia e ricapitolare questi ultimi incredibili dieci giorni.
Sono passati intanto più di 6 mesi dal mio
arrivo in terra australiana. Il nostro viaggio lungo la East coast è giunto al
suo punto di arrivo: Mission Beach e Cairns.
Non c’è molto da dire sulla spiaggia
chilometrica e incantata di Mission Beach, una piccola cittadina a un paio
d’ore dal centro principale del Nord Queensland.
Se non che abbiamo incontrato una comunità di
ragazzi italiani che lavorano nelle farm lì intorno, raccogliendo banane.
L’impiego dei backpackers per il fruitpicking quassù è una vera e propria
industria che porta accordi commerciali tra le farm, gli ostelli e i vari
negozi e pub della zona.
In breve funziona così. Sfruttando il fatto
che è più difficile trovare lavoro cercando da soli su gumtree o altri siti internet (ci vuole solo un po’ più di pazienza
e perseveranza, infondo) e che molta gente ha bisogno di andare in farm non
tanto per i soldi, ma maggiormente per l’ottenimento del secondo anno di visto,
l’ostello si incarica di trovare lavoro ai propri clienti. In cambio, però, l’employee deve rimanere a dormire in
quello stesso ostello per 200 dollari a settimana, pena il licenziamento in
tronco. Con uno stipendio di 640 dollari per
week (notare che un backpacker che raccoglie banane in Australia guadagna 5
volte un neo laureato in Italia), ciò significa riuscire a risparmiare poco più
di 300 dollari a settimana. Contando poi che l’ostello ha sconti per varie
attività come skydive o altri day trips e per mangiare e bere nei vari
pubs e ristorantini, la monotonia del posto (insieme al carovita tipico della
nazione) porta a spendere molto di più e il risultato e che alla fine rimane
solo “un pugno di dollari”:
Il nostro lavoro sarà leggermente differente,
o almeno dovrebbe esserlo. L’abbiamo trovato un po’ per caso parlando con Inga,
una ragazza tedesca che abbiamo conosciuto durante la nostra disavventura a
Fraser Island e Rainbow beach. Non sappiamo molto a riguardo, ma dovrebbe
essere all’incirca 850 dollari compreso vitto e alloggio, per 5 giorni alla
settimana. Non mi aspetto nulla di leggero per quella cifra! Staremo a vedere.
Intanto mi godo il caldo tropicale di Cairns,
con i suoi improvvisi temporali tipici della stagione delle piogge iniziata lo
scorso Dicembre e che sta via via andando a finire.
Ieri capodanno cinese, con tanto di mega
artificiali e magliette commemorative. Sarà l’anno del Serpente, almeno così
pare. La comunità cinese di Cairns è numerosissima, di gran lunga superiore al
numero di backpackers tedeschi che occupa i due terzi dei letti di tutti gli
ostelli della zona. Due dati confermano questo trend nella popolazione locale:
nell’aereo su cui siamo saliti per lo Skydive c’erano un italiano
(incredibilmente assenti quassù), una tedesca e cinque ragazzi cinesi. Secondo
i corsi PADI per il brevetto di subacquea sono tenuti in due lingue, in inglese
e in tedesco, con tanto di insegnati madrelingua.
Ora due domande sorgeranno spontanee: Cusa l’è
lo Skydive? E chi l’è sto Padi?
Il verbo to
dive significa primariamente “tuffarsi” (o “immergersi” nel caso dello
Scubadiving: cioè subacquea). Skydive è questo: tuffarsi nel cielo. E’ riduttivo
tradurlo con paracadutismo perché non riesce a dare l’idea del brivido che si
prova seduti sull’orlo di un aeroplano a 4200 metri di altezza.
E’ incredibile come l’abitudine cambia le
cose. Gli istruttori Skydive nei giorni veramente pieni di lavoro si lanciano
fino a nove-dieci volte. Per loro abbandonarsi alla forza di gravità è un
lavoro come un altro, pieno di passione e divertimento, ma comunque una normale
routine.
Tutto fuorché questo per chiunque provi
l’emozione per la prima volta. Fisicamente parlando la gravità è la forza più
debole che esiste in natura, ma se già un volo dal secondo piano di una casa
rischia di essere fatale, figuriamoci quanti secondi piani puoi costruire fino
a lassù!
E’ un salto nel vuoto, è abbandonare il
proprio destino a qualcun altro che non hai mai visto prima, è fidarsi di un
piccolissimo zainetto che porti sulle spalle, non così differente da quello che
avevi addosso il tuo primo giorno di scuola.
Ma ora come allora lo zaino è infondo qualcosa
costruito per far volare: sono i libri che ti danno la conoscenza e ti fanno
scoprire le tue passioni, sono i vestiti e i biglietti di viaggio che ti
porteranno a vedere nuove parti del mondo, o come in questo caso sono vere e
proprie ali che ti fanno sentire padrone del cielo e del mondo.
Anche se sulla locandina pubblicitaria c’è
scritto “100% safety” quando si tratta di non avere i propri piedi ben piantati
al suolo, non si sa mai. Soprattutto se per legge, prima del decollo, devi
firmare un paio di carte che dicono a chiare lettere “Skydive can lead to
death”.
Ma non c’è tempo di pensare a quello. Il
cervello si immerge nel panico più totale appena il gelo dell’altitudine entra
dallo sportellone del piccolissimo charter. Il fotografo esce dall’abitacolo e
si arrampica ad una barra di metallo, appeso a più di 300 km/h, pronto per
immortalare il momento di maggior terrore. Luce rossa: in posizione. Luce
gialla: pronti, gambe a penzoloni e braccia incrociate con le mani ad avvolgere
la spalla opposta. Luce verde. Non posso raccontare quello che accade in quel
preciso momento. Tutto va in tilt, il tuo cuore inizia a battere fortissimo.
Sei nel vuoto. La terra è lontanissima. Non puoi essere là fuori, non puoi
esserci veramente, è così irreale. Sembra un film. Ma il tuo cuore batte,
l’aria corre veloce sfregando sulle tue gambe e ulula violenta nelle orecchie.
Un piccolo tocco sulla spalla. E’ il segnale per assumere la posizione da
caduta libera. Lentamente il tuo corpo si apre, le tue braccia diventano ali,
le tue gambe si intrecciano con quelle dell’istruttore, sei un bellissimo
sorriso nel cielo. La paura scompare, l’adrenalina fa apparire tutto magnifico.
Finalmente senti il tuo corpo e il piacere di sentirlo. 60 secondi di free falling passano in un istante. Il
fotografo come una spirale gira intorno a te immortalando ogni attimo del volo.
Il tuo istruttore si diverte a fare pose strane sopra la tua testa. Entrambi ti
dicono prima di partire: ricordati, la cosa più importante è sorridere alla
videocamera!”
Ad un tratto il paracadute si apre. Il tuo
corpo rallenta di colpo. Senti un forte scossone nel petto. L’aria non ulula
più nelle orecchie e il suo fracasso è sostituito dal tamburo agitato del
cuore. Ma il fotografo continua a cadere! E tu lo vedi in una frazione di
secondo precipitare. Dalla tua prospettiva la terra non è poi così lontana. Si
sta schiantando! Aiuto! Fermatelo! O mio Dio: ho ucciso il fotografo!
Niente paura. La terra è ancora a 3 minuti di
distanza, è solo andato un po’ più in basso per scattare altre fenomenali
fotografie del tuo volo. Lo ritroverai orgoglioso del suo lavoro sul piccolo
prato dove stai per atterrare. Forza negli addominali, mani sotto le ginocchia
e gambe in alto. E oplà! Leggero come
una piuma i tuoi piedi toccano il suolo.
Di solito l’atterraggio è il momento più
problematico. Il paracadutismo è una attività ormai in circolazione da circa
100 anni, dalle guerre mondiali, quindi i sistemi di apertura del paracadute
sono ormai ultra-sicuri. Ma l’atterraggio, bisogna stare all’occhio, perché il
rischio di rompersi una caviglia o un ginocchio, mettendo giù male la gamba o
impattando il suolo troppo veloce è concreto.
Tutto bene quel che finisce bene. Almeno
finché il mio istruttore si avvicina a me e confessa: “ho avuto un po’ paura
anche io stavolta. Quando ho aperto il paracadute, istintivamente , ti sei
attaccato indietro allo zainetto. Quella
era la maniglia per controllare il paracadute!”.
Bene...
Bene...
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