sabato 9 febbraio 2013

Nel blu dipinto di blu (felice di stare lassù)


Stanno succedendo davvero tantissime cose qui dall’altra parte del mondo. Troppe per un solo intervento sul blog. Le racconterò tutte piano piano nel corso del tempo, anche perché sembra proprio che il 12 Febbraio inizierò a lavorare in un’altra farm, vicino Cairns, dove finalmente mi arruolerò per il tanto discusso fruit picking e così avrò il tempo di fermarmi un attimo nella monotonia e ricapitolare questi ultimi incredibili dieci giorni.

Sono passati intanto più di 6 mesi dal mio arrivo in terra australiana. Il nostro viaggio lungo la East coast è giunto al suo punto di arrivo: Mission Beach e Cairns.
Non c’è molto da dire sulla spiaggia chilometrica e incantata di Mission Beach, una piccola cittadina a un paio d’ore dal centro principale del Nord Queensland.
Se non che abbiamo incontrato una comunità di ragazzi italiani che lavorano nelle farm lì intorno, raccogliendo banane. L’impiego dei backpackers per il fruitpicking quassù è una vera e propria industria che porta accordi commerciali tra le farm, gli ostelli e i vari negozi e pub della zona.
In breve funziona così. Sfruttando il fatto che è più difficile trovare lavoro cercando da soli su gumtree o altri siti internet (ci vuole solo un po’ più di pazienza e perseveranza, infondo) e che molta gente ha bisogno di andare in farm non tanto per i soldi, ma maggiormente per l’ottenimento del secondo anno di visto, l’ostello si incarica di trovare lavoro ai propri clienti. In cambio, però, l’employee deve rimanere a dormire in quello stesso ostello per 200 dollari a settimana, pena il licenziamento in tronco. Con uno stipendio di 640 dollari per week (notare che un backpacker che raccoglie banane in Australia guadagna 5 volte un neo laureato in Italia), ciò significa riuscire a risparmiare poco più di 300 dollari a settimana. Contando poi che l’ostello ha sconti per varie attività come skydive o altri day trips e per mangiare e bere nei vari pubs e ristorantini, la monotonia del posto (insieme al carovita tipico della nazione) porta a spendere molto di più e il risultato e che alla fine rimane solo “un pugno di dollari”:
Il nostro lavoro sarà leggermente differente, o almeno dovrebbe esserlo. L’abbiamo trovato un po’ per caso parlando con Inga, una ragazza tedesca che abbiamo conosciuto durante la nostra disavventura a Fraser Island e Rainbow beach. Non sappiamo molto a riguardo, ma dovrebbe essere all’incirca 850 dollari compreso vitto e alloggio, per 5 giorni alla settimana. Non mi aspetto nulla di leggero per quella cifra! Staremo a vedere.

Intanto mi godo il caldo tropicale di Cairns, con i suoi improvvisi temporali tipici della stagione delle piogge iniziata lo scorso Dicembre e che sta via via andando a finire.
Ieri capodanno cinese, con tanto di mega artificiali e magliette commemorative. Sarà l’anno del Serpente, almeno così pare. La comunità cinese di Cairns è numerosissima, di gran lunga superiore al numero di backpackers tedeschi che occupa i due terzi dei letti di tutti gli ostelli della zona. Due dati confermano questo trend nella popolazione locale: nell’aereo su cui siamo saliti per lo Skydive c’erano un italiano (incredibilmente assenti quassù), una tedesca e cinque ragazzi cinesi. Secondo i corsi PADI per il brevetto di subacquea sono tenuti in due lingue, in inglese e in tedesco, con tanto di insegnati madrelingua.
Ora due domande sorgeranno spontanee: Cusa l’è lo Skydive? E chi l’è sto Padi?

Il verbo to dive significa primariamente “tuffarsi” (o “immergersi” nel caso dello Scubadiving: cioè subacquea). Skydive è questo: tuffarsi nel cielo. E’ riduttivo tradurlo con paracadutismo perché non riesce a dare l’idea del brivido che si prova seduti sull’orlo di un aeroplano a 4200 metri di altezza.
E’ incredibile come l’abitudine cambia le cose. Gli istruttori Skydive nei giorni veramente pieni di lavoro si lanciano fino a nove-dieci volte. Per loro abbandonarsi alla forza di gravità è un lavoro come un altro, pieno di passione e divertimento, ma comunque una normale routine.
Tutto fuorché questo per chiunque provi l’emozione per la prima volta. Fisicamente parlando la gravità è la forza più debole che esiste in natura, ma se già un volo dal secondo piano di una casa rischia di essere fatale, figuriamoci quanti secondi piani puoi costruire fino a lassù!
E’ un salto nel vuoto, è abbandonare il proprio destino a qualcun altro che non hai mai visto prima, è fidarsi di un piccolissimo zainetto che porti sulle spalle, non così differente da quello che avevi addosso il tuo primo giorno di scuola.
Ma ora come allora lo zaino è infondo qualcosa costruito per far volare: sono i libri che ti danno la conoscenza e ti fanno scoprire le tue passioni, sono i vestiti e i biglietti di viaggio che ti porteranno a vedere nuove parti del mondo, o come in questo caso sono vere e proprie ali che ti fanno sentire padrone del cielo e del mondo.

Anche se sulla locandina pubblicitaria c’è scritto “100% safety” quando si tratta di non avere i propri piedi ben piantati al suolo, non si sa mai. Soprattutto se per legge, prima del decollo, devi firmare un paio di carte che dicono a chiare lettere “Skydive can lead to death”.
Ma non c’è tempo di pensare a quello. Il cervello si immerge nel panico più totale appena il gelo dell’altitudine entra dallo sportellone del piccolissimo charter. Il fotografo esce dall’abitacolo e si arrampica ad una barra di metallo, appeso a più di 300 km/h, pronto per immortalare il momento di maggior terrore. Luce rossa: in posizione. Luce gialla: pronti, gambe a penzoloni e braccia incrociate con le mani ad avvolgere la spalla opposta. Luce verde. Non posso raccontare quello che accade in quel preciso momento. Tutto va in tilt, il tuo cuore inizia a battere fortissimo. Sei nel vuoto. La terra è lontanissima. Non puoi essere là fuori, non puoi esserci veramente, è così irreale. Sembra un film. Ma il tuo cuore batte, l’aria corre veloce sfregando sulle tue gambe e ulula violenta nelle orecchie. Un piccolo tocco sulla spalla. E’ il segnale per assumere la posizione da caduta libera. Lentamente il tuo corpo si apre, le tue braccia diventano ali, le tue gambe si intrecciano con quelle dell’istruttore, sei un bellissimo sorriso nel cielo. La paura scompare, l’adrenalina fa apparire tutto magnifico. Finalmente senti il tuo corpo e il piacere di sentirlo. 60 secondi di free falling passano in un istante. Il fotografo come una spirale gira intorno a te immortalando ogni attimo del volo. Il tuo istruttore si diverte a fare pose strane sopra la tua testa. Entrambi ti dicono prima di partire: ricordati, la cosa più importante è sorridere alla videocamera!”
Ad un tratto il paracadute si apre. Il tuo corpo rallenta di colpo. Senti un forte scossone nel petto. L’aria non ulula più nelle orecchie e il suo fracasso è sostituito dal tamburo agitato del cuore. Ma il fotografo continua a cadere! E tu lo vedi in una frazione di secondo precipitare. Dalla tua prospettiva la terra non è poi così lontana. Si sta schiantando! Aiuto! Fermatelo! O mio Dio: ho ucciso il fotografo!
Niente paura. La terra è ancora a 3 minuti di distanza, è solo andato un po’ più in basso per scattare altre fenomenali fotografie del tuo volo. Lo ritroverai orgoglioso del suo lavoro sul piccolo prato dove stai per atterrare. Forza negli addominali, mani sotto le ginocchia e gambe in alto. E oplà!  Leggero come una piuma i tuoi piedi toccano il suolo.
Di solito l’atterraggio è il momento più problematico. Il paracadutismo è una attività ormai in circolazione da circa 100 anni, dalle guerre mondiali, quindi i sistemi di apertura del paracadute sono ormai ultra-sicuri. Ma l’atterraggio, bisogna stare all’occhio, perché il rischio di rompersi una caviglia o un ginocchio, mettendo giù male la gamba o impattando il suolo troppo veloce è concreto.

Tutto bene quel che finisce bene. Almeno finché il mio istruttore si avvicina a me e confessa: “ho avuto un po’ paura anche io stavolta. Quando ho aperto il paracadute, istintivamente , ti sei attaccato indietro allo zainetto.  Quella era la maniglia per controllare il paracadute!”.

Bene...

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